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Spesso alcuni brevi post e/o riflessioni postati su Facebook riscuotono interesse e commenti particolarmente significativi. Però succede che chi ci legge da WorldPress o semplicemente dalla rete, non vede e non legge quanto avviene sul social. Faccio allora un breve sunto di alcuni post di questi ultimi giorni e poi riporto i commenti più significativi ricevuti.Ieri ho ripreso e ripubblicato un post di 4 anni fa:
L’ estate si sa offre sempre spunti di riflessione profondi e serissimi. Parlare della qualità dei festival jazz italiani è sicuramente prassi minore rispetto ai veri problemi del paese, dell’Europa e del mondo intero, mai cosi’ vicino alla terza guerra mondiale.
Ma scusatemi se insisto, leggendo i cartelloni dei festival in corso o annunciati non posso fare a meno di qualche spunto di riflessione. Due quarti dei programmi sono all’insegna dei soliti abusatissimi nomi conditi qua e là da frizzi e (gua)lazzi. Denotano due problemi notevoli: la inadeguatezza sia dei cosiddetti direttori artistici che del pubblico di riferimento, ahimè purtroppo maggioritario nella stessa misura in cui è di bocca buona e pronto a credere alle “eccellenze italiane”.
Poi ci sono i festival che non mancano di dare un colpo alla botte e l’ altro al cerchio, per cui si trovano fior di jazzisti a fianco di sfiatati cantanti abbondantemente oltre la via del tramonto, in un immaginario Monopoli sarebbero parcheggiati in Viale delle Rimembranze. In nome di fantomatiche aperture mentali si può passare da Brad Mehldau alla M’annoia con la stessa nonchalance con cui si pasteggia l’aragosta col Tavernello. Guai a protestare, seppur educatamente. Immediatamente verreste bollati come puristi demoplutogiudaicomassonicoborghesi.
Infine l’ultimo quarto spetta a coloro che con dedizione e salti mortali col budget riescono ad imbastire un cartellone di jazz senza figuranti ne ballerine. Purtroppo sono la minoranza, così come il pubblico che vi accorre. Ne abbiamo preso atto da molto tempo. Qualcuno si augurava che il dopo covid, almeno da un punto di vista di prospettiva musicale, sarebbe stato diverso, aperto al nuovo e alla qualità. I soliti talebani. Che se ne tornino in Afghanistan.
Sono assolutamente in accordo con ciò che è stato scritto. La correlazione fra inadeguatezza dei direttori artistici ( che una volta si chiamavano “ responsabili dei programmi” , ma una nomina a direttore non la di nega a nessuno ) e utenza confusa e dal palato che non sa distinguere è, oltre che vera, tristemente manifesta sotto il falso principio che la musica è una sola…. Purtroppo questo tipo di problema non si manifesta solo in estate, ma pervade tutte le stagioni dei cosiddetti jazz club che, in quanto tali, sono ormai diventati una esigua minoranza a favore di club che invece di proporre stagioni di qualità con personaggi noti e giovani in ascesa, preferiscono attivare scambi di date fra amici, in modo da unire visibilità ( finta) e necessità di arrivare a fine mese. Perché ?? Beh, direi che L’ assalto di molti “ musicisti” alla direzione artistica anche dei locali è andato a buon fine ed il risultato di tale conflitto di interessi è manifesto, direi tattile. Molti tra questi adottano dinamiche che possono essere definite di tipo mafioso ed il bello è che se ne vantano pure. Intanto, il pubblico inconsapevole non si accorge di nulla e, in assenza di educazione al jazz, una cantante di paese ha la stessa valenza di chi da anni calca palchi importanti. L’associazione nazionale dei musicisti di jazz, che esiste ed è parecchio attiva, su questi temi fa orecchio da mercante perché dovrebbe prendere una posizione riguardo al tema sottolineato, nell’interesse degli stessi musicisti, ma dovrebbe, appunto, denunciare e cercare di risolvere questo corto circuito, rischiando di prendere una bella scossa e, dunque, meglio girarsi dall’altra parte e far finta di non vedere. (Francesco Barresi)
Paolo Damiani:
Sul tema, ecco quanto scrive Armand Meignan, eccellente direttore artistico del festival Europe jazz di Le Mans:
FESTIVAL JAZZ ESTIVI: COSA RESTA DEI NOSTRI AMORI?
È arrivato il momento dei Festival Jazz Estivi, con i loro programmi fitti di “stelle del jazz”: ROBERT PLANT, AIR, AYO (Antibes), BEN L’ONCLE SOUL, TIKEN JAH FAKOLY, KASSAV (Jazz a Vienne),FEU! CHATTERTON, MUSTARD, JORJA SMITH (Nice Jazz Festival), SANTANA, ROBERT PLANT, TIKEN JAH FAKOLY (Jazz in Marciac), ecc. Cos’è questa strana malattia che li affligge tutti? Cos’è questa strana voglia di programmare (oltre il 50% dei loro programmi!) star dell’electro-disco-funk-hip hop-rap-reggae-ska-punk o figure stanche del rock e del jazz in declino? Abbiamo persino visto i VILLAGE PEOPLE al JAZZ IN ENGHIEN nel 2024 e ancora meglio quest’estate al Jazz au Phare (Île de Rè): SHEILA! Sorprendente, vero? Deprimente, sicuramente!
Il jazz ha sempre amato mescolarsi con le musiche più diverse, i più grandi lo hanno fatto (MILES, COLTRANE, GILLESPIE, CARLA BLEY…), ma non si tratta più di un “mixaggio” riuscito, è solo questa zuppa “electro-funk-soul-rap-reggae, ecc.” servita dai rappresentanti, e non sempre i migliori, di queste “musiche” che fanno “i loro numeri”! Ed è un po’ come se i festival di musica classica programmassero Mylène Farmer o Zaho de Sagazan accompagnati da un’orchestra sinfonica per far credere alla gente che siano bravi quanto Mozart o Bach!
Viviamo in un’epoca meravigliosa… il jazz sta quasi morendo o sta perdendo il suo pubblico. I suoi grandi nomi recenti non suonano più (Rollins, Jarrett, Portal, Shepp, Romano, ecc.) o se ne sono andati (Shorter, Corea, Solal, Carla Bley, Lockwood, Louis, Konitz, Ornette, Breuker, Tippett, McGregor, ecc.). Eppure le nuove generazioni americane ed europee sono assolutamente entusiasmanti e creative… ma non hanno la stessa capacità di attrarre un vasto pubblico… e quindi non hanno la priorità nella programmazione di questi grandi festival estivi!
Oggi, il pubblico dei festival musicali vuole spettacoli di luci, spettacolo, divertimento e festa! Ascoltare veramente la musica, assaporare il “suono” di un sassofono o di un contrabbasso diventa quasi secondario… Dove sono finiti i pubblici di un tempo che venivano ad ascoltare il suono di Gary Peacock, Archie Shepp, le stridulezze dei piatti di Daniel Humair, la spinta di Roy Haines, la poesia ritmica di Paul Motian, la sorprendente rotondità del suono di Henri Texier, il tocco di Brad Meldhau, il groove di Eddy Louiss, “Lonely Woman” di Ornette o “Kind of Blue” di Miles, il canto di Louis Sclavis, ecc.
Cosa resta dei nostri amori?

Qualche giorno prima, sempre su Facebook, ho postato il manifesto di una rassegna musicale, non un festival jazz, in cui tra le proposte figura Fred Bongusto in jazz. Chi ci legge conosce bene cosa pensiamo riguardo queste operazioni commerciali di rispolvero di canzoni da tutti conosciute in chiave “jazz”, di conseguenza accanto al poster della manifestazione ho commentato, con un pizzico di ironia, come Totò in un celebre film: ma mi faccia il piacere ! Non era un giudizio sui musicisti, non avendoli ascoltati, ma sul tipo di proposta, tipica di queste stagioni in cui appena il cantante/cantautore passa a miglior vita, immediatamente spuntano omaggi più o meno centrati su musiche e metriche che nella maggior parte dei casi non si prestano affatto a versioni jazz e, quasi sempre, fanno rimpiangere gli originali . Qualcuno è riuscito perfino a “jazzificare” Battiato che notoriamente non amava il jazz. Non a caso di tutte le canzoni italiane degli ultimi decenni una sola (Estate di Bruno Martino) è entrata nel songbook dei musicisti di tutto il mondo. Sta di fatto che la frase alla Totò ha sollevato un piccolo vespaio, con commenti di vario tipo, qualcuno piccato, altri fuori fase, ma uno decisamente centrato e assolutamente condivisibile. Eccolo:
Chi mi conosce per davvero sa che non amo le etichette e non amo neppure le etichette coniate come “controetichette”. Tuttavia non credo vi sia altra operazione più insana e manipolante, in campo musicale, di quella di tirare in ballo costantemente il termine “Jazz”.
La parola Jazz mi sembra così gigantesca da essere diventata, paradossalmente, fragile.
Viene usata spesso a sproposito.
In certi contesti come un pedigree da esibire, un marchio nobilitante. In altri, come un refugium peccatorum, una sorta di alibi artistico per giustificare qualsiasi operazione, anche la più povera di contenuto, purché ammantata di “libertà” e “improvvisazione”.
C’è chi la utilizza per dare spessore culturale a progetti confusi, estetizzanti, nati più per essere venduti che per essere ascoltati davvero.
C’è chi si appropria del termine jazz per posizionarsi sul mercato della “musica colta”, pur muovendosi all’interno di grammatiche pop o mainstream, senza nessuna tensione sperimentale, senza alcun rischio.
Il jazz diventa allora una parola-totem, utile a conferire uno status.
Un’etichetta di comodo, un mare magnum dentro cui si può mettere di tutto: dal funky elegante da lounge bar al cantautorato in cerca di legittimazione, dalle cover orchestrali ai dischi patinati con tre assoli obbligati.
Non è solo un problema di estetica. È un problema politico.
Perché mentre si celebrano queste operazioni con il blasone del jazz, si marginalizzano o ignorano quei musicisti che ancora oggi cercano davvero. Che ancora credono nell’improvvisazione come territorio espressivo e non come ornamento, musicisti che reinventano la forma, che creano nuove mappe, spesso fuori dai riflettori più comodi.
Sebbene il jazz sia nato come espressione popolare — e gran parte del suo repertorio, almeno fino a un certo punto, abbia attinto alla canzone d’autore — oggi risulta fuori luogo richiamare queste origini per giustificare la dilagante presenza della pop music all’interno della scrittura, della performance e della comunicazione jazzistica.
Non si tratta più di un dialogo fertile, ma di una resa.
Una resa che svuota il jazz della sua vocazione più profonda: la ricerca, l’imprevisto, la libertà espressiva.
Ciò che una volta era trasformazione creativa — pensiamo alle riletture di Ellington o Monk, o ai primi standards reinventati da Miles Davis o Coltrane — oggi si riduce troppo spesso a una trascrizione elegante e levigata del già noto.
Nel frattempo, nelle rassegne, nei palinsesti, nei premi, continua la confusione: tutto è jazz, quindi niente lo è più davvero.
La parola jazz è troppo grande per essere usata come salvacondotto o passepartout.
Merita rispetto. Merita silenzio, prima di essere pronunciata.
Merita, sopra ogni cosa, verità.
Roberto Ottaviano
Non so se queste parole avranno un seguito qui su WordPress, ma nel bene e nel male fotografano una situazione reale e chiedono a pubblico, musicisti e direttori artistici di schierarsi, crescere, confrontarsi. Sarà possibile ?
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