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Nel cuore verde della Valtellina, dove le Alpi incontrano il cielo e il fiume Adda scorre lento tra le vigne e i meleti, è nato un sogno: portare il jazz in luoghi dove nessuno (o quasi) lo aveva mai immaginato. Così, nei primi anni 2000, prese vita l’Ambria Jazz Festival, una rassegna che non cercava palchi convenzionali, ma si lasciava ispirare dalla natura, dai borghi, dai silenzi della montagna.
Il festival, fondato con l’idea di avvicinare il grande jazz alle comunità alpine, è cresciuto di anno in anno. Da Sondrio a Tirano, da Val Masino fino all’Alta Valtellina, ogni edizione disegna un itinerario unico, in cui la musica si intreccia con l’ambiente e la cultura del territorio. I concerti si tengono in luoghi sorprendenti: antiche chiese di pietra, castagneti secolari, rifugi alpini e piazze sospese nel tempo. L’esperienza non è solo musicale, ma sensoriale: si ascolta il jazz mentre si respira il profumo del larice, si sente il vento fra le foglie, si assaporano i formaggi locali tra un assolo e l’altro.
Negli anni, l’Ambria Jazz ha ospitato artisti italiani e internazionali, valorizzando anche giovani talenti. La sua forza è la capacità di creare comunità attorno alla musica, di invitare le persone a rallentare, a perdersi tra una nota e un panorama mozzafiato. È un festival che non solo porta cultura, ma restituisce un’anima ai luoghi.
Il piccolo miracolo musicale si rinnova anche questa estate, la diciassettesima edizione è iniziata a Tirano con Albert Hera. Il programma di questa edizione, come succede da qualche hanno, privilegia giovani musicisti, poco conosciuti al grande pubblico ma decisamente talentuosi.
Una scelta intelligente e non facile, per quanto il budget del festival sia sempre stato limitato, nel corso degli anni non è mai mancato il nome prestigioso, sia italiano che europeo e, qualche volta, anche americano. Come non ricordare i meravigliosi concerti di Hamid Drake e Pasquale Mirra, del gruppo di Lars Danielsson o della Artchipel Orchestra, e questi sono solamente i primi di tanti nomi che vengono alla mente.

Ieri era la volta di Chiavenna, dove nel piccolo e raccolto giardino della Società Operaia si è esibito il trio di Cesare Panizzi, premio Massimo Urbani 2024 come miglior gruppo giovane e autore di un album uscito nel febbraio di quest’ anno, It’s been a blessing.
Rispetto al CD la formazione vedeva Giulio Scianatico invece di Giuseppe Cucchiara al contrabbasso e Gianluca Vescovini alla batteria. Sostituzione che per nulla ha inficiato la buona riuscita del concerto, i tre ragazzi hanno impressionato per padronanza tecnica, facilità di linguaggio e perfetto interplay tra i ruoli. Una sorpresa gradevole ma non inaspettata, visti i riconoscimenti già conseguiti.
Il concerto è stato all’ insegna di un neo harbop con venature blues e una apertura melodica (Druce Street) di intenso lirismo. I tre hanno eseguito buona parte dei brani del loro primo album più un paio di standard (Cole Porter e Rodgers&Hart). Peccato per il pubblico non molto numeroso (per fortuna caldo e plaudente), e per non aver potuto ascoltare Panizzi sul pianoforte (impensabile in uno spazio così ristretto), bensì su una pianola elettrica.
Il programma completo con i prossimi concerti sul sito del festival e il sito di Cesare Panizzi dove ascoltare l’album:
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