Ormai è la terza volta che approdo a Torino per il Festival diretto da Stefano Zenni, e già questo la dice lunga su cosa ne pensi. Il clima della città è praticamente estivo, non solo per il caldo e per il sole, ma anche per le strade semideserte del centro storico, costellato di saracinesche chiuse.

Ma basta varcare il portone del Conservatorio Giuseppe Verdi per ritrovarsi in una splendida sala stipata da un pubblico che è forse la miglior risorsa di questa rassegna: un po’ borghese vecchio stile ed un po’ hipster, un po’ vissuto ed un po’ giovane, comunque colto e non occasionale.

Nella calda serata del 25 aprile è di scena Vijay Iyer. E’ una rara occasione di ascoltarlo in solo: la riprova della preziosità dell’occasione viene dal fatto che non sono riuscito a trovare per voi una clip YouTube che documenti una recente performance solitaria del pianista, ed ahimè non è facile supplire con soluzioni di ripiego.
… ed allora andiamo per arbitrarie similitudini. L’inquietante ‘divinazione’ dell’indimenticabile ‘Uneasy’ suggerisce in qualche modo l’atmosfera del concerto torinese
Come i quattro lettori del blog ben sanno, ritengo Vijay la punta di diamante del piano jazz contemporaneo, e non perdo occasione di ascoltarlo dal vivo, in versione ‘unfiltered’, parecchio diversa da quella che emerge dai suoi pur notevolissimi album.
Ogni incontro con lui è una sorta di ’blind date’, un appuntamento al buio, anche perché la musica del nostro è un barometro sensibilissimo allo spirito dei tempi. E nella serata torinese la lancetta non indica il bello, tutt’altro. In un set molto lungo e denso si sono snodate diverse medley nelle quali i temi dell’ormai corposo book del pianista venivano riplasmati e direi quasi radicalmente stravolti. Si parte quasi in sordina, in un’atmosfera meditativa ed introversa. Una mano sinistra netta e decisa scava in spazi molto bui e tenebrosi: è un Vijay piuttosto tormentato, che invece di contemplare gli orizzonti aperti del passato scruta ansioso l’incombere di nubi di tempesta.
Con il procedere del set, il volume e la consistenza della musica si espandono gradatamente, sino a raggiungere in certi momenti dei climax veramente impressionanti. Ancora una volta brilla il talento di Vijay per una fluida composizione istantanea, che conosce momenti di transizione da un episodio all’altro ben segnalati all’ascoltatore con massicci e direi quasi taglienti blocchi di accordi.
Gli aficionados rimangono spiazzati dall’ansia e dalla tensione che trasfigura tanti dei classici di Iyer che abbiamo imparato a conoscere da ‘Uneasy’ e ‘Compassion’: non scampa nemmeno quella sorta di inno alla rinascita dell’era pandemica – quantomeno così noi lo abbiamo sentito – che è il ‘Night and Day’ nell’arrangiamento di Joe Henderson, uno dei vertici di ‘Uneasy’.
Questo concerto densissimo, carico di asprezze e senso di minaccia, si è chiuso in modo alquanto singolare e sorprendente. Vijay si rivolge brevemente al pubblico, accenna al ‘giorno speciale per il vostro paese’, aggiunge delle allusioni alla situazione del suo di paese, ma ahimè non usa il microfono che resta ozioso sul piano e la accuratissima acustica della sala è purtroppo molto assorbente. La mani di Vijay si posano nuovamente sulla tastiera per intrecciare le linee straniate di un tema beatlesiano con il “Pueblo unido…” degli Inti Illimani, l’ultima sorpresa riservata ad un pubblico concentrato ed assorto che alla fine richiama Iyer sul palco almeno quattro volte con una intensa ovazione. Ed alla fine viene congedato con un bacio appena accennato: per un ex fisico di Yale non mi sembra poco.

Nella stessa sala la sera successiva tirava tutt’altra aria, a testimonianza dell’ampio ventaglio di proposte di TJF. Il palco che ha visto la meditativa solitudine di Iyer ora è invece affollato dal trio di Enrico Pieranunzi (Luca Bulgarelli al basso, Mauro Beggio alla batteria) e dall’Orchestra Filarmonica Italiana guidata da Michele Corcella, un complesso da camera che allinea cinque archi ed altrettanti fiati. Insomma, si tenta ancora una volta la rischiosa scommessa di conciliare una formazione jazz con un ensemble di spiccata matrice europeo-accademica.
I giocatori che ora siedono al tavolo dove quasi tutti gli altri ci hanno lasciato anche la camicia possono però contare su due assi nella manica: il primo è la personalità musicale di Pieranunzi, figlio d’arte e forse il più accademicamente equipaggiato nell’irripetibile generazione dei nostri ‘jazzisti selvaggi’ cresciuti fisicamente gomito a gomito con gli ultimi grandi del jazz. Il secondo è la benedizione del dedicatario del concerto, John Lewis, eminenza grigia del Modern Jazz Quartet (ed anche di altro, però).
Modern Jazz Quartet ‘Milano’, 1953. Lo abbiamo ascoltato anche da Pieranunzi e Corcella
Scelta bella e colta quella di Pieranunzi, che così si scrolla di dosso il banale e risaputo accostamento a Bill Evans. Non poco impegnativa, però: l’esprit de finesse del Lewis di ‘Vendome’, ‘Concorde’, ‘Milano’, ‘No Sun in Venice’ è già un traguardo difficile da raggiungere, particolarmente per una formazione cameristica europea, al di qua dell’Atlantico non abbiamo l’ esempio di un Kronos Quartet od di una Orpheus Chamber Orchestra, e men che meno dei magnifici ensemble manovrati in studio da Gunther Schuller. Il rischio che i cameristi vengano ridotti al ruolo di accompagnatori o di meri fornitori di sfondi o di atmosfere c’è ed è forte.
Aggiungiamo che Pieranunzi non fa sconti: dal suo pianoforte arrivano sì sottigliezza e ricchezza di sfumature, ma anche uno swing di scattante e felina agilità. E qui soccorrono gli arrangiamenti di Corcella, che, forti di un background jazzistico, consentono all’Orchestra di dialogare alla pari e con scioltezza con il trio; peccato solo per la linea fiati un poco in secondo piano. In una situazione simile è critico il ruolo della batteria, problematica cerniera tra i due complessi: e qui una menzione speciale va al drumming sottile e sensibile di Beggio, che ha fatto il miracolo di salvare la nervosa inquietudine delle pagine di Lewis senza togliere spazio ai compagni della Filarmonica. Connie Kay benedice dall’alto.
‘Venice’ 1959. John Lewis con tre quarti del MJQ. Una premonizione della fuga di Milt Jackson nel 1974? Comunque una bella dimostrazione della sommessa inquietudine di cui si parlava..
Del resto, quando si parla di Modern Jazz Quartet forse si pensa troppo agli impeccabili smoking sfoggiati nelle più famose sale da concerto europee, e molto meno alle tensioni ed alle lacerazioni che accompagnarono tutta la vita del gruppo sin dagli esordi (si pensi alla immediata defezione di Kenny Clarke, allo scioglimento del 1974 provocato dall’inquieto Milt Jackson ed alla riunione finale del 1981). Per tacere dell’insopprimibile blues tinge che caratterizzava la musica dei quattro: ed a voler cercare il pelo nell’uovo, è forse questa l’unica cosa che è sbiadita nella raffinata lettura di Pieranunzi & Corcella.
“Monday in Milan”, da “A Milanese Story” , John Lewis 1962. Un blues per una Milano nervosa e creativamente inquieta che ormai non c’è più. Possiamo solo ricordarla nei fotogrammi di film come ‘Una Storia Milanese’ di Eriprando Visconti (nipote di Luchino, non dimentichiamolo)
Il morbido andamento della serata si deve anche alle stringate interlocuzioni didattiche con cui Pieranunzi ha guidato il pubblico con una nonchalance ed understatement spesso conditi dalla sua sottile ironia, merce rarissima sui nostri palchi. Nelle fasi finali del concerto il pianista ha riservato spazi esclusivi per il suo trio ed anche per il suo piano, senza esimersi dalll’inevitabile, celebre ‘Django’, elegia in memoria del chitarrista manouche, primo vero jazzman europeo.
“Variation on a theme by John Lewis (Django)”, Jazz Abstractions, 1961. Ed io che sono bastian contrario vi scodello questo, per niente languido e sentimentale. Ma anche questo è John Lewis (qui però presente più che altro in spirito, non a caso nume tutelare di una seduta che vede al lavoro gente come Ornette Coleman, Eric Dolphy, Gunther Schuller. L’apogeo della Third Stream: altri che hanno scommesso e vinto al tavolo di cui si parlava più sopra)
A completare la seduzione di un pubblico sensibile e partecipe è giunto un fascinoso “Autumn in New York” offerto come bis: è di Vernon Duke (un fake per un ostico nome russo, provvidenzialmente suggerito da George Gershwin, fake pure lui), ma non ha nulla da invidiare ai temi di Lewis quanto a sottigliezza e raffinatezza.
Ed a premiare la vostra pazienza, ecco qui una clip del concerto, pervenuta quasi in diretta dal canale YouTube di TJF: con il contrappuntistico ‘Vendome’ affidato alle cure di Pieranunzi & Corcella potrete farvi un’idea di prima mano. Una volta tanto. Milton56