Affrontare la carriera da musicista affidandosi alle sole corde della chitarra acustica in un mondo affollato da voci strumentali spesso stentoree e magniloquenti, mi è sempre sembrata un’impresa originale, forse un pò naif , ma coraggiosa ed encomiabile. E’ la scelta di Luca Falomi, proveniente dalla riviera ligure, il quale, da oltre un decennio sta portando, fra varie esperienze musicali sopra o dietro ad un palco, la sua chitarra in giro fra tanti mondi, la world music dei Motus Laevus e del trio Naviganti e Sognatori, la canzone popolare della cantante sarda Franca Masu, l’ etno jazz dei genovesi Esperanto. Senza mai trascurare la dimensione solista, il rapporto intimo con il suo strumento che caratterizza questo recente “Myricae“, opera solista pubblicata da abeat records, nella quale Falomi si presenta arnato della sola forza e grazia delle sue corde, con qualche aiuto musicale da un ristretto gruppo di amici, Stefano Della Casa alla produzione e programmazione, Giovanni Ceccarelli al Fender Rhodes, Marco Fadda alle percussioni e la voce di Giulia Beatini in un brano. Il titolo assusivo alla raccolta poetica di Giovanni Pascoli ed all’ attenzione a temi intimi, quotidiani, accentuato da un episodio familiare richiamato nelle note di copertina, dice già molto del contenuto. Luca la racconta così :“Ho trovato una grande assonanza tra questo concetto (Myricae) e il mio modo di comporre e fare musica: una necessità quotidiana, espressione di me stesso, delle piccole e grandi cose della vita”.
Musica che si propone con passo pelpato e modi gentili, lontana anni luce da ogni tipo di autoreferenziale esibizione virtuosistica, e che ci accompagna senza fretta, con gusto ricercato, nell’universo musicale del suo creatore. Ove convivono le atmosfere arcane in sapore di prog di “Sciarada“, l’unico brano in cui si ascoltano rifrazioni elettriche, quelle classiche mescolate al gioco dell’improvvisazione jazz di “Les amours imaginaires”, raffinati quadri intimisti (“Solace” , “”Studio #1” ), temi che sottolineano le proprie origini mediterranee (“Ishitar”), o che ricavano da strutture complesse squarci melodici aperti alla cantabilità (“Stefano e Irene“).
Negli ultimi due brani fa capolino un substrato ritmico più deciso ai dialoghi delle chitarre, senza tuttavia pregiudicare la levità che attraversa tutto il disco : “Enigma” esprime, nella iterativa melodia, un sentore ispanico sottolineato dal finale corale, mentre “Step on time” , dopo un’intensa introduzione solista, acquista un passo dinamico funky e si distende in un evocativo fraseggio, per concludersi con una porta aperta ad imprevedibili sviluppi nelle esibizioni live.
Un disco di musica gentile quanto mai necessario in questi tempi cruenti. Che a metà percorso circa proclama il proprio sentire , e quello del suo autore, grazie ad una chitarra, un piano elettrico e qualche percussione sparsa. Quanto basta per costruire un piccolo grande inno alla pace.