Mi rendo conto solo ora che tra le varie tipologie di articoli tra cui vengono classificati i nostri pezzi ce ne è una che langue dall’origine: “tracce del passato”.
Rimediamo al malfatto inaugurando una serie di piccole miniature centrate su brani particolarmente intensi e significativi dei decenni passati, delle vere e proprio pietre di paragone che consentano di metter in scala il buono, l’ordinario e soprattutto il trascurabile che circolano oggi.

Per quanto mi concerne, profitterò dell’occasione per sottoporre alla vostra attenzione quelli che io chiamo gli ‘unsung heroes’, musicisti di gran valore che hanno avuto la sfortuna di affacciarsi sulla scena nel momento in cui questa era dominata da colossi che, senza loro colpa, oggettivamente confinavano nell’ombra colleghi che in altri momenti sarebbero stati riconosciuti come autentici fuoriclasse, ed in alcuni casi veri e propri maestri.
Va da sé che la grande industria discografica ha fatto poi il resto, lasciando sugli scaffali per decenni i master dei loro album: un oblio che solo in rari casi è stato rotto da rare e poco accessibili ristampe, prontamente accaparrate e tesaurizzate da appassionati di lunga data. E ciò sempre che le etichette che originariamente pubblicarono i loro lavori non siano cadute nel buco nero di bancarotte, dispersione dei loro cataloghi, accaparramento speculativo dei diritti sul loro materiale.

Booker Ervin (1930 – 1970) è il miglior esempio di questa sorte. Già i soli 40 anni della sua giornata terrena raccontano una storia: sembra che in pieno 20° secolo nel paese più ricco del mondo solo i jazzmen potessero morire di diabete, con buona pace della mitologia costruita intorno alla onnipotente medicina americana.

Ma in questi pochi anni il nostro ha fatto molte cose: i jazzofili più acculturati menzioneranno subito la militanza nei gruppi di Charles Mingus dei primi anni ’60 e la svettante presenza in diverse delle sue più celebri registrazioni. Ma c’è anche la collaborazione con Mal Waldron, che lo ha messo nuovamente a confronto con Eric Dolphy, una coppia che fa scintille nella sua eterogeneità.

Booker veniva dal Texas, un’origine che vuol dir molto nella tradizione del sax tenore: strumento di cui sulle prime il nostro si era impadronito da autodidatta, venendo in origine dal trombone (intensamente praticato nelle bands dell’U.S. Air Force che si accaparrò Booker per qualche anno). Anzi, Ervin sembra il prototipo del tenorista texano: suono grande e tagliente, fraseggio ampio e scattante, caratteristiche a cui il nostro aggiungeva anche una intensa carica emozionale ed una evidente propensione a spingersi in avanti, non perdendo di vista quanto di più avanzato stava crescendo intorno a lui.

Solo pochi jazzfans alquanto stagionati ricorderanno però il capolavoro di Booker: il ciclo dei ‘books’ incisi per la Prestige nel corso di un solo anno, il 1964. “The Song Book”, “The Blues Book”, “The Space Book” e “The Freedom Book” (occhio ai titoli….) attendono ancora una riesumazione dall’oblio, confidiamo nella Craft Recordings che da tempo ha intrapreso una lodevole, ma ahimè graduale ristampa dei titoli Prestige / Riverside / New Jazz / Pacific /Contemporary: consiglio di tener d’occhio la loro pagina Bandcamp dove vendono i loro album anche in formato digitale (opzione degna di molta attenzione con i tempi che corrono).
Ed adesso lascio la parola a Booker, con un dei più intensi, dilatati ed estatici ‘I can’t get started’ che siano mai stati incisi: qui siamo ad una incollatura dal più felice Coltrane…. Se vi piacerà (io da giovinetto ho consumato il relativo LP…), cercatelo su qualche piattaforma meno caotica ed abborracciata di YouTube, cui ricorro per mere questioni di ampiezza di accesso. Nove minuti e cinquantasette secondi che non rimpiangerete. Milton56
Oltre agli inseparabili Richard Davis al basso ed Alan Dawson alla batteria, qui c’è un altro ‘unsung hero‘, il raffinato Jaki Byard, un bopper incorruttibile
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