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Il Donizetti come lo vedono i musicisti… non so se mi spiego….
E’ un poco triste da dire, dal momento che ne fa le spese il grande Dave Holland costretto al forfait da un delicata operazione al cuore (a proposito, sempre auguri di pronta ripresa), ma anche stavolta la Provvidenza del Caso che presiede alle cose jazzistiche ha lavorato bene.
Al posto del duo Holland – Loueke è stato scritturato in corsa il Lux Quartet di Myra Melford, già in giro per l’Europa e l’Italia: l’accoppiamento con il trio di Danilo Perez più Ravi Coltrane si è rivelato più che felice ed ha dato luogo ad una serata memorabile, a mio avviso.
Per i Lux Melford ha arruolato il sax tenore Dayna Stephens (apparso solo con parsimonia dalle nostre parti), il contrabbassista Nick Dunston (già notato in compagnia di Mary Halvorson, notevole biglietto da visita) e soprattutto la batterista Allison Miller. Su quest’ultima conviene aprire una parentesi: non capita spesso che in concerto, soprattutto in uno su un palco decisamente importante come quello del Donizetti, il leader non pronunzi verbo. Mettiamo pure in conto una qualche timidezza di fronte ad un maestoso teatro di tradizione affollato sino all’ultimo strapuntino di loggione, ma è parso un po’ strano che a presentare brillantemente e briosamente il concerto sia stata la Miller, invece della Melford.

Ma appena la musica comincia a dipanarsi, ci si rende contro che la batterista è un autentico co-pilota dell’aereo Lux: il suo drumming nitido ed arioso è decisivo per dare l’impronta al suono luminoso e trasparente che ben spiega il nome del gruppo. A dargli un poco di radici terrene ci pensa del resto il basso corposo e sanguigno di Dunston, altro nome da segnare bene in evidenza sul taccuino dell’ascoltatore. Ancora una volta a Bergamo assistiamo ad un ruolo un poco defilato del sax tenore, lontano dai protagonismi di altri tempi: quello morbido e sinuoso di Stephens risponde più ad una logica di gruppo che ad un’evidenza solistica, a tutto beneficio del notevole equilibrio ed amalgama della band.
La silenziosa Myra (che peraltro a fine concerto sembrava quasi levitare di fronte all’ovazione oceanica del Donizetti) sfoggia un pianismo anch’esso arioso, pieno di nitore e quasi delicato: le sue sortite solistiche non sono frequenti, ma rimangono decisamente impresse nell’ascoltatore.
A fine concerto la folla del Donizetti – in parte cospicua costituita da scafati jazzofili di lungo corso (c’è persino qualcuno che non si è perso un’edizione dal 1969) – decreta un successo ad un passo dal trionfo. A conferma, un episodio curioso: a fine set il gruppo esce, pressato anche dai tempi richiesti dal cambio palco per il concerto successivo. Ma i 1.200 del Donizetti rivogliono il Lux: una lunga ovazione gradualmente si trasforma in un applauso seccamente ritmato, anche su un buon tempo. Alla fine la prima ad uscire è la solita Allison che piomba sulla batteria per cavalcare il ritmo, incitando il pubblico: il Lux viene così lanciato in corsa per un bis su cui poi cala definitivamente il sipario.
Bottom line: a mio avviso il Lux è la miglior cosa che Melford ha messo in campo negli ultimi anni, un gruppo accuratamente bilanciato ed omogeneo al pari dello Snowy Egret che la pianista aveva riunito oltre 10 anni fa: auguriamogli buona vita (e diversi buoni album…).
Lux Quartet un anno fa. Ironiche “congratulazioni e condoglianze” dedicate a tutti i genitori. Differenze rispetto a Bergamo: Scott Colley al basso invece di Dunston (una sostituzione di gran lusso) ed un Dayna Stehphens un po’ meno sulle sue. Il resto c’è tutto
Il fascino dell’accoppiamento con gli Shorteriani di Danilo Perez è stato tutto nel diametrale contrasto: dai cieli luminosi e limpidi del Lux alla notte perenne dei grandi spazi cosmici, popolati però da nebulose fluide e cangianti, in perenne, inarrestabile trasformazione.

Anche qui sono sugli scudi gli uomini di quella che una volta si chiamava la ‘ritmica’: menzione speciale va alle prodezze di John Patitucci al basso, sia all’archetto che al pizzicato. Non a caso il bassista ha suonato quasi tutto il tempo seduto su uno sgabello, quasi a suggerire un’attitudine concertistica (del resto non estranea, tutt’altro, alla musica dell’ultimo Shorter). Il gruppo non offre spazio per sortite solistiche, è una fluida nebulosa che improvvisamente genera nell’oscurità dello spazio profondo effimere aurore boreali ed altri accecanti prodigi luminosi.
L’abilità di Perez rifulge anche nel creare sonorità insolite e cariche di mistero con la semplice manipolazione del piano, con la sollecitazione delle corde a mani nude, senza gli indocili e capricciosi ordigni elettronici tanto in voga oggi. Solo raramente Perez ricorre ad una tastiera elettronica per ricavare più ampie pennellate di colore che servono a meglio caratterizzare il suono di gruppo.

Mentre vengo trascinato dal silenzioso dinamismo di questa musica fluida, non posso fare a meno di pensare ai primissimi Wheather Report, e soprattutto alle affascinanti copertine dei loro “Wheather Report” e soprattutto “Misterious Traveller”: forse le immagini che descrivono meglio la musica ascoltata da Perez e compagni.

Su Ravi Coltrane incombeva un cognome ingombrante, soprattutto nel contesto creato dal trio: ed invece il suo inserimento è stato perfetto, anche qui fluidità e sottigliezza, curiosamente il suono conosce poco scarto nel passaggio dal tenore al soprano. Anche qui nessun protagonismo (men che mai titanico), anzi Ravi è decisivo nel confermarci che qui non siamo davanti ad un’evocazione, ma al puro, autentico sviluppo del pensiero shorteriano.
Sul finire del concerto, irrompe negli iperuranii shorteriani Joe Lovano con il suo sax soprano: nelle migliori tradizioni jazzistiche non ci si può negare al classico “May I sit in?”, tanto più questa volta in cui la richiesta viene dal padrone di casa, il direttore del festival. Il finale quindi scivola in un clima piuttosto diverso: ovviamente bisogna convergere su uno standard che dia anche al nuovo arrivato il modo di giocare la sua partita. Sarà “Witch Hunt”, ormai un classico di Wayne, tra l’altro molto appropriato al momento attuale… Il tema celebre, molto incisivo e strutturato, porta il finale su di un clima più espressionista, in cui Lovano fa la sua figura dialogando con Ravi. Tutto sommato un epilogo netto e definito, forse non inappropriato dopo un concerto così etereo ed inafferrabile.
Bottom line. Da buon cittadino del cosmo, Wayne è ancora con noi, solamente parla con voci nuove, ma anch’esse affascinanti. In tempi cupi e minacciosi come i nostri, ci ricorda la possibilità e la capacità di guardare con mente limpida e serena a spazi lontani in cui un futuro emozionante e vivibile è ancora possibile: un bel messaggio che ci viene dai migliori anni ’70, i primi. Ed anche un buon antidoto al nostro Presente Assoluto affollato di Grandi Fratelli pericolosi sì, ma anche risibili e grotteschi se visti in prospettiva più ampia.
A proposito, ancora una volta stay tuned: altri segnali sono in arrivo da lontano. Milton56
Il trio più Ravi pochi giorni fa. E’ proprio il celebre ‘Witch Hunt’, ormai quasi un hit jazzistico: talmente iconico da oscurare un poco la fluida nebulosa che è questo gruppo in altre occasioni. Comunque lasciate trascorrere l’incalzante esposizione del tema e sullo sviluppo potrete cominciare a farvi un’idea del set di Bergamo
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