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BERGAMO JAZZ, LA ‘SECOND OPINION’ (1) – Tracce di Jazz

musicnewstv_vrle5b by musicnewstv_vrle5b
March 26, 2025
in Country and Jazz
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BERGAMO JAZZ, LA ‘SECOND OPINION’ (1) – Tracce di Jazz
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Come nei consulti medici, anche qui potrete disporre di una diversa opinione sul festival bergamasco: diversa sia perché riguarda appuntamenti non ricompresi nell’agenda del collega Rob53, sia perché contempla punti di vista alternativi su concerti cui abbiamo assistito entrambi.

Il Teatro S.Andrea: non manca certo l’atmosfera (notare il triangolo esosterico sospeso a mezz’aria)

Cominciamo dall’inizio, o per meglio dire dal ‘mio’ inizio. Ormai sono un habitué dei concerti di piano solo che si tengono nel delizioso ed intimo Teatro S.Andrea, alle pendici della Città Alta. Nel giro di pochissimi anni questo sito è diventato un vero e proprio santuario di questo impegnativo genere, e l’averlo creato è forse il maggior merito del Bergamo Jazz Festival degli ultimi anni. Certo, è cosa che si rivolge ad una piccola platea di un centinaio di spettatori (‘sold out’ praticamente automatici), che è però un sensibilissimo laboratorio che rivela la capacità di ricezione del pubblico di fronte alle proposte più impegnative ed avanzate. E dato che nel backstage del jazz le voci corrono veloci, sono certo che sono già parecchi i pianisti che ambiscono a cimentarsi nello spazio esoterico del S.Andrea (io avrei già la mia lista di candidati). E soprattutto a metter le mani sopra al meraviglioso Steinway del 1920 che ha dimorato per decenni alla Scala di Milano: uno strumento la cui unicità e totale incomparabilità con quelli moderni colpisce immediatamente anche gli ascoltatori più profani.

…ed eccolo il Magnifico Centenario. Fa impressione anche in foto, dal vivo anche di più. Chissà quante mani celebri lo hanno toccato negli anni scaligeri

Quest’anno è stata la volta di Aruan Ortiz, l’ennesimo cubano del piano jazz. Spesso mi capita di pensare che in ambito afroamericano i pianisti della Isla Grande hanno lo stesso rilievo della scuola pianistica sovietica nella musica continentale europea: perizia strumentale assoluta, cultura musicale a 360 gradi, spiccata ed originale personalità stilistica. Aruan ha accumulato un impressionante e marcatamente caratterizzato curriculum da sideman (William Parker, Oliver Lake, Don Byron, James Brandon Lewis, David Murray giusto per farsi un’idea) prima di affrontare prove in proprio che hanno già prodotto una discografia piuttosto folta, da ultimo affidata alla svizzera Intakt, un’affiliazione molto significativa e rivelatrice. E proprio l’innovativa ed intraprendente label ha pubblicato nel 2017 “Cub(an)ism” , un album di piano solo che ha costituito la base della omonima performance al S.Andrea.

E’ noto il debole dei jazzmen per i giochi di parole, le ambivalenze linguistiche: non è affatto  solo un vezzo snobistico, spesso è un modo per dare conto della sfaccettatura ambivalente della loro musica. E forse una più attenta lettura del titolo del set avrebbe attutito un certo effetto di sconcerto e di sorpresa di fronte ad una performance che di ‘cuban’ aveva molto poco, quantomeno nell’accezione più banale del termine. Le parentesi elidono, e quel che resta dalla sottrazione è il ‘cubism’ poliedrico e contrastato che ha in gran parte dominato l’intensa e concentrata prova di Ortiz.

Aruan fa un uso decisamente particolare delle preziose risorse dello Steinway centenario: rinunzia alla ricca e sfumata palette timbrica prediletta dai suoi colleghi che lo hanno preceduto, sfruttando invece la sua possente dinamica e la morbida profondità del suo registro grave.

Il suo approccio è dominato da serrati e violenti contrasti dinamici, si oscilla tra i due estremi della tastiera tralasciando in gran parte i registri medi. La perenne tensione ed instabilità della musica è acuita dalla totale indipendenza delle due mani, che invece di ripartirsi i compiti con il consueto apporto di struttura della sinistra, si scambiano continuamente la conduzione del discorso in una sorta di continuo gioco di ‘call and response’. Ogni continuità ed articolazione del discorso è infranta da profonde, improvvise faglie che generano una atmosfera persistentemente tenebrosa, rotta solo da alcuni sottili fraseggi sull’estremo registro acuto che lo Steinway proietta con assoluta, penetrante nitidezza verso il pubblico.

Bella immagine d’archivo di Aruan che rende l’atmosfera del concerto

Siamo in una sorta di laboratorio alchemico, dove se temi ci sono, sono ridotti ai loro elementi primi ed essenziali: a questa radicale distillazione resiste solo un Ellington, che filtra però in una resa talmente dark ed allucinata che avrebbe senz’altro fatto alzare il sopracciglio anche al mondano e vissuto Duke. In chiusura di concerto Aruan ha parlato anche di un Monk, che però mi è parso completamente evaporato negli alambicchi.

Quale bis ci è stato offerto anche un ultimo distillato, in dose omeopatica in luogo delle lunghe e dense sequenze precedenti. Aruan ce lo ha presentato come un tema di Compay Segundo, l’ultimo patriarca del Son cubano: gli crediamo sulla parola.

Bottom line: un set impegnativo ed a tratti destabilizzante, una esperienza di ascolto decisamente profonda e caratterizzata da un impatto fisico e da un coinvolgimento sensoriale forse del tutto irripetibili in un ambiente diverso dal raccolto S.Andrea. Senz’altro un altro passo verso la creazione della magia del luogo, da rinnovare nelle prossime edizioni con esperienze altrettanto coinvolgenti ed affascinanti.   

En passant, un’autentica ‘second opinion’. Anch’io ero all’Auditorium di Piazza della Libertà per ascoltare il Dialect Quintet di Alexander Hawkins. Avvertenza dovuta: come ben sanno i quattro lettori fedeli, sono fan sfegatato del pianista di Oxford, che ascolto in ogni occasione possibile nei più vari contesti. Questa volta però il nostro si è cimentato in una delle prime prove da bandleader di un gruppo articolato: sinora il suo terreno d’elezione è stato quello del duo e del trio, per tacere del piano solo, la dimensione in cui eccelle. Quindi ho cercato di ascoltare ‘a mente fredda’.

I Dialettici al gran completo

Il Dialect si esprime prevalentemente in una dimensione corale, di assieme, pilotata con mano ferma e decisa dal leader che con il suo piano lancia temi minimali, ma fortemente incisivi, da far lievitare poi con massicce ed insistite progressioni del gruppo.

Su tutti si staglia la batteria rocciosa e quanto mai incombente di Francesca Remigi, che in certi momenti sembra addirittura prendere il timone della band. Tornerà dalla Berklee di Boston (dove ora si trova) con una personalità ancora più marcata e meglio affinata. La grinta della batterista spesso sovrasta anche il sax tenore della ‘gaucha’ Camila Nebbia, che al pari di altri suoi colleghi d’ancia del festival sembra esser votata al servizio delle logiche di gruppo, mettendo tra parentesi il tradizionale protagonismo dello strumento (nel suo caso accentuato dall’inclinazione verso un free storico ed ortodosso). Un altro che ‘buca’ la densità dei collettivi anche più intricati è Giacomo Zanus: una chitarra elettrica asciutta e tesa, molto orientata su territori lontani dalle retoriche più ovvie dello strumento ed ispirata da ascolti ad ampio raggio decisamente insoliti nella categoria. Detto da uno che ha in uggia il ‘chitarrismo protagonistico e spettacolare’ non mi sembra poco :-).

Per la mia felicità ci sono anche brevi finestre solistiche in cui emerge a tutto tondo l’avventuroso pianismo di Alexander, che però si concentra soprattutto sul dettare la linea al gruppo con limpida e spontanea autorità.

Bottom line: certo, c’è qualche rigidità e ridondanza da sfrondare, ma va detto che il gruppo ha un’estrazione veramente cosmopolita (inglesi, argentini, italiani residenti ed emigrati) ed ha alle spalle poche occasioni di lavoro comune (io ne ricordo una sola a Novara Jazz 2024). E poi i fondamentali ci sono, e la scelta di un giovane veterano con già buona esperienza di formazioni innovative come Ferdinando Romano (che qui non è solo un vigoroso bassista) rivela la mano sicura dell’Hawkins selezionatore di talenti e caporchestra. Ad maiora, quindi, e speriamo in un album a venire, anche perché purtroppo non riesco a farvi sentire nulla di loro, e questo in barba alle macchine da presa più numerose al festival che a Cinecittà: dove finisca tutto questo girato (che tra l’altro ha una sua incidenza – sia pur limitata – sull’atmosfera dei concerti) rimane mistero insondato.

Stay tuned, il consulto continua. Milton56

Almeno alla fine riesco ad inserire qualcosa da ascoltare. Intendiamoci, questo ‘Cub(an)ism’ di Ortiz su disco del 2017 è quasi un idillio a confronto con quello live di qualche giorno fa…



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