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Il Bergamo Jazz Festival è nato nel 1969, e si è rapidamente evoluto in uno dei festival più prestigiosi d’Italia. Fin dalle sue origini, il festival ha avuto l’obiettivo di celebrare la ricchezza e la diversità del jazz, attirando artisti di fama internazionale e promuovendo anche talenti emergenti.
Nel corso degli anni, il festival ha ospitato leggende del jazz come Keith Jarrett, Charlie Mingus, Max Roach, l’ Art Ensemble of Chicago, Lee Konitz, Paul Motian e moltissimi altri grandi artisti trasformando Bergamo in un punto di riferimento per la scena jazz.
Il festival ha ampliato il suo programma, includendo non solo concerti ma anche collaborazioni con altre forme d’arte, come il cinema e la fotografia. Questo approccio innovativo ha contribuito a consolidare la sua reputazione come un evento unico e innovativo nel panorama affollato dei festival jazz.
L’ edizione di quest’ anno rappresenta un giusto mix tra tradizione e innovazione, alternando concerti mattutini e pomeridiani più sperimentali ad altri decisamente più nelle corde del folto pubblico che ogni sera riempie ogni ordine di posti del Teatro Donizetti.
Joe Lovano è il direttore artistico che succede ad altri musicisti che hanno ricoperto lo stesso ruolo in passato. Di lui archivieremo una immagine bonaria e impacciata nel suo improbabile italiano, ma anche due splendidi camei prima nel gruppo Legacy of Wayne Shorter con Perez Patitucci Blade e Coltrane e poi nei Fearless Five di Enrico Rava.
Ma procediamo con ordine e proviamo a riassumere gli otto concerti in due giorni e poco più. Il mio festival inizia il venerdì pomeriggio all’ Auditorium con il gruppo La via del ferro. In realtà si tratta di quattro musicisti di stanza a Londra, con due italiani, Maria Chiara Argirò al pianoforte e Michelangelo Sandroglio al contrabbasso, Alex Hitchcock al sax e Myele Mancanza batterista neozelandese.
Dalla mia posizione la batteria copriva gran parte degli strumenti, ma, per quello che sono riuscito a decifrare, si tratta di un gruppo interessante, lontano sia dal post bop che dal free, alla ricerca una propria via ad alto tasso energetico.
La serata si apre con Lux Quartet, a mio parere il concerto più lucido e centrato tra quelli ai quali ho assistito. Guidati dalle due co-leader, Myra Melford e Allison Miller, i quattro hanno proposto un set molto equilibrato tra temi ben costruiti e libera improvvisazione. Nick Dunston si conferma contrabbassista solido e duttile, meno appariscente rispetto ai colleghi, Dayna Stephens svolge comunque il suo ruolo con precisione e affidabilità. Devastante l’ impatto della Miller sullo strumento, un vero uragano di energia proposta con facilità disarmante. Come sempre molto impattante il pianismo essenziale della Melford.
Nonostante la formazione fosse del tutto simile, il concerto di Danilo Perez & c ha percorso sentieri completamente diversi. Lasciata alle spalle qualsiasi intenzione di replicare la formula con il compianto Wayne Shorter, il quartetto ha proposto un set denso e astratto, evidenziando un perfetto equilibrio tra le parti, dove il contributo di Ravi Coltrane, mai fuori dalle righe, ha dato una impronta del tutto originale.
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