Ancora gioco di rimessa con il collega Rob 53.
Sta bene per il pessimismo che controbatte superficialità e trionfalismo mediatici, ma è necessario anche un bagno di sano realismo.
Apro una brevissima parentesi: i 18 secondi di ascolto medio su Spotify su cui Sepe gioca abilmente in chiave polemica a me fanno pensare più che ad ascoltatori umani con seri problemi di deficit di attenzione, a legioni di piccoli bot digitali operosamente dediti a far salire i contatori degli ascolti… e qui mi fermo, ma non ci vuol molto a capire dove porti il venticello del sospetto ;-). Chiusa parentesi.
Spotify ha ogni genere di difetti, ma siccome con buona pace dei credenti tecnofili il web è ormai il regno incontrastato degli oligopoli (se non dei veri e propri monopoli) purtroppo ormai è una realtà di entità e di dimensioni tali con cui è necessario fare i conti. Lo si voglia o no, è ormai la vetrina mondiale della musica. Chi non vi appare semplicemente non esiste: non a caso corso degli anni ho visto cadere una dietro l’altra tante tenaci posizioni di astensione e rifiuto inizialmente assunte da serissime e motivate etichette indipendenti.
Cominciamo con i ripensamenti di noi utenti. Dobbiamo imparare a fare un uso critico dello streaming, andando a cercare attivamente e con precisione quello che ci preme ed interessa, evitando di farci imporre passivamente e pigramente le famigerate playlist nelle quali si trova di tutto un po’ e talvolta anche ‘musica geneticamente modificata’: si parla già di playlists contenenti non solo brani partoriti dall’intelligenza artificiale, ma addirittura intestati a ‘musicisti’ inesistenti se non nei circuiti di qualche di qualche server. Ricordate sempre che l’Hal 9000 del Grande Fratello Svedese non lavora per proporvi la musica che vi piace, ma per imporvi suadentemente, ma pressantemente quell’altra che sta a cuore a lui: dopo qualche annetto di assidua frequentazione ed attenta osservazione la cosa risulta chiara. Altra riflessione scomoda: è chiaro che un uso consapevole ed alternativo di Spotify è di fatto alla portata essenzialmente degli utenti Premium, che hanno la possibilità di scegliere selezionare e ascoltare quello che vogliono loro. Gli utenti Free oltre a subire la pubblicità ed i diktat dell’AI della piattaforma si troveranno a regalare alla stessa senza adeguata contropartita montagne di dati personali: i profili di gusti musicali sono oro per i macinatori e setacciatori di big data, perché vengono ritenuti profondamente rivelatori della personalità degli utenti anche sotto molti altri aspetti (non escluso quello politico). Naturalmente saranno tutti flussi debitamente anonimizzati, come si affretteranno a rassicurarci… in ogni caso la cosa non è certo tranquillizzante.
E veniamo ai ripensamenti di chi la musica la fa, ed anche di chi la produce e distribuisce. E’ del tutto sterile l’approccio del singolo che tenti di contrapporsi ad un moloch di questa fatta: siamo dalle parti di Don Chisciotte e della sua crociata contro i mulini a vento. E’ ora di metter tra parentesi un certo individualismo in cui sono state cresciute soprattutto le ultime generazioni di musicisti e imparare ad associarsi tra simili, ad organizzarsi delegando produzione e distribuzione a figure che abbiano competenze ed attitudini in questo campo, coagularsi intorno ad etichette che abbiano un’identità ben definita e riconoscibile dal pubblico, ed ovviamente congeniali. La Strata East di cui spesso abbiamo parlato negli ultimi è tempi è un modello che ancora può suggerire utili riflessioni.L’autoproduzione tanto in voga negli ultimi anni è in questo contesto una scommessa perdente (ed anche sotto il profilo della riuscita artistica ci sarebbe molto da osservare).
Gli unici soggetti che possono avere un rapporto di concreta interlocuzione con un kombinat dell’ascolto in streaming sono le case discografiche piccole o grandi che siano; tra l’altro sono loro ad aver determinato la fortuna dei vari Spotify le cui royalties oramai costituiscono la voce principale di ricavo dei loro conti economici. Le etichette, anche quelle indipendenti, una qualche capacità di pressione ce la hanno: in primo luogo, il Moloch sinora s’è guardato bene dal farsi coinvolgere nella produzione diretta di contenuti, e con solide ragioni. E poi questi colossi hanno un punto debole: se vogliono rimanere i monopolisti che tendenzialmente aspirano ad essere hanno la necessità di coprire tutte le nicchie di mercato, anche le più piccole, offrendo il catalogo più vasto ed onnicomprensivo possibile per togliere spazio ed ossigeno ai concorrenti (quelli di Spotify sono poco più di semplici sparring partners).
La caustica ironia di Sepe sul “vinile che suona così caldo” merita successivo approfondimento in altra sede, è in allestimento l’apposito ring.
C’è poi un’altra questione che riguarda i musicisti: Rob 53 ha giustamente paragonato ai gusti giovanili della sua epoca quelli attuali, raffronto ovviamente sconfortante. Però bisogna anche tenere presente che i vari Guccini, De Gregori et similia, per non parlare ancora prima dei gruppi rock stranieri e italiani sono diventati tali e hanno potuto proporsi con quella freschezza e quella sintonia con gli orientamenti e i sentimenti del pubblico perché esisteva un circuito di musica dal vivo piccolo e artigianale (qualche volta anche borderline sotto il profilo della legalità) da cui emergevano i talenti che poi venivano catturati (ed a volte corrotti). dall’industria discografica. Sin dalla sua nascita Sanremo è sempre stata un’operazione di regime, un Festival che serve ad un sistema mediatico per autocelebrarsi: tutt’al più uno fenomeno di costume (spesso sconfortante), da cui quasi mai è nata musica di forte presa sul pubblico più ampio.
Quanto ai media generalisti, da sempre sono stati megafono dei vari potentati economici che li posseggono: con il regresso di questi ultimi ad uno stile da padroni delle ferriere inutile cercare in essi un minimo standard di decoro professionale. Lasciamoli a fotocopiare le loro veline comprensive di strafalcioni e le loro pagine culturali e di spettacoli su cui dovrebbe spiccare il discreto e pudibondo occchiello ‘pubblicità redazionale’ che si usava una volta.
E scusate, ma a questo punto un poco di schietto cinismo dell’Impolitico si impone: inutile disperarsi sui gusti musicali giovanili. Da ragazzi si ascolta la ‘musica del branco’, quella che ti fa sentire integrato nel gruppo. Era così quando eravamo adolescenti noi, figuriamoci oggi nei tempi delle baby gangs, degli influencer di Tik Tok, delle stelline di Only Fans e via clonando. E’ troppo pretendere di orientare un quindicenne su gusti musicali che lo trasformeranno fatalmente in un alieno, in un disadattato nell’ambito della cerchia dei suoi coetanei.
Se come penso nella nostra platea abbondano le pantere grigie con carichi di famiglia, per loro c’è solo un consiglio possibile: senza alcuno spirito di imposizione e senza prediche dal pulpito far correre nelle nostre case la musica che amiamo, sperando in quell’effetto di osmosi che consente il passaggio spontaneo e non forzato tra una generazione e l’altra di certi gusti musicali. Ma rendiamoci conto che se anche il pupo/pupa vedrà entrare entrare in circolo qualche centilitro di jazz, questo per lui/lei rimarrà un vizio solitario da coltivare in segreto (del resto anche ai nostri tempi le cose andavano pressappoco così, posso testimoniarlo).
Inutile anche disperarsi in sulla pochezza di quello che ci viene proposto nel piccolo circuito del jazz, sul poco spazio ai giovani talenti etc.: richiamo in blocco quanto scritto tempo fa sulle cantine e balere di un tempo, rievocate da Coscia e Trovesi. In assenza di un circuito di piccoli luoghi informali e con un pubblico coltivato con continuità (in gran parte da costruire, certo) è difficile che si aprano spazi a nuove leve e nuove proposte. Le quali peraltro devono avere la pazienza di uscire dalle secche del ‘jazz delle stanzette chiuse’ ed imparare a misurarsi e mettersi in relazione con il pubblico. Ivi compreso quello delle cantine e dei bar, in cui tutti i grandi jazzmen americani sono diventati tali macinando serate su serate per manciate di dollari. E’ lì che si forma il jazzista, non nei teatri o nelle arene da centinaia di posti dove si suona tre – quattro volte l’anno quando va bene. Anche perché questi grandi spazi soggiacciono ad oggettive, ineludibili logiche di gestione, che tra l’altro accomunano sia la committenza privata (a mio avviso quasi estinta) che quella pubblico-istituzionale, che anch’essa punta a platee piene per ovvie ragioni di conquista di consenso.
E direi che per ora di medicine amare ne abbiamo ingollate già abbastanza, addolciamo quindi il palato con la musica degli young cats delle clips: anche il nostro è a suo modo un ‘piccolo palco’. Milton56
Un interessante trio, notato proprio in questi giorni: ospita il talentuoso Federico Calcagno al clarinetto basso, qui in mood rilassato